Il movimento Eremitico Umbro

gli eremiti umbri. movimento eremitico umbro

gli eremiti umbri. movimento eremitico umbro

Sugli orrori dell'Impero romano, oltre agli storici pagani, si è in possesso dell'analisi di San Cipriano (a.d. 258) inviata a Donato: "Se volgi gli occhi alla città, incontrerai una folla più molesta della solitudine.Si preparano i giuochi dei gladiatori, affinchè il sangue soddisfi il truce desiderio degli occhi crudeli. I corpi dei gladiatori si ingrassano come dei tori, per divertire di più con le sanguinanti ferite. Si uccide un uomo, per dare diletto ad altri uomini: uccidere bene diventa un'arte che viene insegnata.

Che cosa può dirsi di più inumano e crudele? E' perizia uccidere, è gloria saper uccidere. Che costume è mai questo di esporre alle fiere innocenti che nessuno condannò? Sono giovani di bello aspetto che vengono esposti in vesti preziose. I gladiatori superstiti si preparano ad ulteriore eccidio, gloriandosi dei loro mali, per furore contro se stessi combattono con le fiere. Gli stessi genitori godono dello spettacolo: fratelli, sorelle sono nella cavea pagandone il prezzo. Più aumenta il prezzo dello spettacolo e più la madre paga, pur di partecipare alla propria sciagura, e in così empi spettacoli non avvertono di diventare omicidi, parricidi coi loro applausi" In "Vita Agricolae", Cornelio Tacito fa dire al duce britannico Calgaco: "I romani sono devastatori dell’universo. Non li sazia l’Oriente, non l’Occidente: con cupidigia vogliono per loro le ricchezze e le miserie di tutti: rubare, trucidare lo dicono impero, stendere ovunque la solitudine la chiamano pace". Alla morte di ogni imperatore, si scatenavano lotte civili, delazioni, proscrizioni sanguinose senza pietà. Le persecuzioni contro i cristiani erano state spietate e sanguinose. La vita, specialmente in città, era divenuta impossibile.

Il fisco colpiva senza pietà tutti i possidenti, gli artigiani, gli agricoltori, mediante appaltatori inumani. Sotto Teodosio ogni attività era oppressa da tasse esorbitanti. Molti agricoltori preferivano cedere terre e braccia, diventando servi della gleba; oppure coltivavano per il puro necessario alla famiglia, lasciando i latifondi incolti. Il prete Silvano ("De Dei gubernio") nel 440 scriveva: "I curiali dei municipi sono dei tiranni; si gloriano anzi d’esser denominati assassini. Non vi è luogo dove le viscere delle vedove e degli orfani non vengano divorate dai più cospicui cittadini di ogni città. Iniqua è la vita dei curiali". L’elemento idolatra sotto Graziano e Teodosio si rifugiò nei "pagi". Le legioni si riempirono di barbari stipendiati. Ovunque passavano, era saccheggio e rapina. Sono insicure le città, i "vici", perfino le campagne. Nel sec. V, a questi mali si aggiungono le invasioni barbariche. I Visigoti guidati da Alarico nel 410 invasero l’Italia, saccheggiarono Roma. Gli Ostrogoti, nel 406, invasero la pianura Padana. I Vandali, guidati da Genserico, nel 429 invasero l’Africa romana e le coste italiche. Gli Unni, guidati da Attila, nel 452 invasero il Veneto. I Vandali, nel 454, giunsero con Genserico fino a Roma.

Gli Eruli, nel 476, si elessero re Odoacre, facendo dimettere l'ultimo imperatore. Gli Ostrogoti fecero altrettanto: il loro re Teodorico, nel 493 si insediò come "patricius italicus" a Ravenna. Le rapine, il malcostume, le violenze, le vessazioni continuarono creando maggiore avversione alla convivenza civile. Molti, al dire di Tacito, si rallegravano della vittoria dei barbari. Le sanguinose guerre gotiche aumentarono la fuga verso le campagne. Roma soffrì nuovi assedi da parte dei re, goti, da Vitige nel 536, da Totila nel 544 e 546 tra l’indifferenza dei cittadini, che al fisco esoso e all’oppressione romana, preferivano il blando dominio dei Goti, e poi dei Longobardi. Le città si fecero deserte, mentre si svilupparono le "curtes campestri", e si popolarono di laure eremitiche le valli.La lotta tra la grandezza di una civiltà in tramonto e un’altra in prodigiosa crescita era più sentita in città, tra gli spiriti più nobili, tra i retori romani e gli apologisti cristiani. Minucio Felice in "Octavius" dell’anno 180, risponde al pagano Cecilio, il quale vantava le grandezze di Roma ad opera degli dèi, che Roma si era ingrandita a forza di rapine e di delitti. Gli usi e i costumi dell’idolatria venivano posti in ridicolo.

Il contrasto continuò alla fine del sec. IV, sotto Teodosio, per l’Editto di riconoscimento del Cristianesimo (380); sotto Graziano, il quale ordinò la confisca dei beni dei templi pagani (382), per l’abrogazione di ogni contributo statale ai riti pagani (384), con la proibizione del culto degli idoli (391), con la soppressione dei giuochi olimpici nel 394, e la chiusura dei templi nei 415. Gran parte dei magistrati e dei nobili romani erano pagani: gli eredi dei senatori illustri stentavano a convenirsi a una religione da schiavi. Le scuole, come ricorda Sant'Agostino, erano in mano a retori pagani, che imponevano lo studio e le vicende della mitologia e dei poemi scostumati. Molte famiglie rifiutavano di inviare i figli alle scuole pubbliche. A lungo restò l’infausta passione per le gare dei gladiatori. Il monaco Telemaco, il quale osò disprezzarle, fu linciato dalla folla. Furono proibite nel 403, con decreto di Onorio. La statua della Vittoria, nell’aula senatoria, tolta da Costantino, fu riposta in onore di Costanzo nel 343, e solo nel 382 fu di nuovo rimossa da Graziano. Quella statua bronzea era il simbolo della grandezza di Roma. Ma invano Q. Aurelio Simmaco, nel 383, protestò presso Valentiniano II, per riporla in onore. Trovò l'opposizione del potente Ambrogio. Alla morte dell'imperatore, sotto Eugenio, il console Flaviano, nel 394, ottenne il ritorno nel senato della simbolica statua, ma per breve tempo, poichè Teodosio la fece rimuovere.

Molti templi furono trasformati in chiese cristiane, e furono continuate le festività esterne, i giuochi, le gare a cui il popolo non sapeva rinunziare.Lo stato infelice dell’Italia, l’occupazione di Roma diffusero disperazione e tristezza. Scriveva, piangendo, San Girolamo (Epist. 123): "Con la fine di Roma, l’orbe intero perisce. La dominatrice del mondo è fatta schiava (...), sconfitta dalla fame prima che dalla spada. Che cosa si potrà salvare se Roma è perita?". Sant'Agostino, a conforto dei cristiani, compilava nel 410 il suo "De civitate Dei". Mentre tutto il mondo classico rovina e la stessa Roma, città eterna, crolla, aggrappiamoci alla città di Dio, che non perirà. Roma perisce per i vizi suoi. Orosio, discepolo di Sant'Agostino ("Historiae adversus paganos"), osa mettere sullo stesso livello le conquiste delle legioni e le orde dei barbari: "Che differenza c’è tra le conquiste dei romani e le invasioni dei barbari? Nessuna. Anzi mentre le legioni propagano l’idolatria, gli eserciti dei barbari mettono a contatto i popoli con la vera fede". San Paolino da Nola esorta a porre in Cristo tutta la fiducia: Noi dobbiamo preferire Dio agli affetti, alla patria, agli onori, alle ricchezze. Chi ama questo mondo perirà con esso; chi si fa soldato diventa strumento di morte. Rompi, o figlio, tutti i legami che ti tengono legato al mondo e invece di servire un re terreno, mettiti al servizio del re eterno e regnerai eternamente con Lui (Epist. 26). Molti cristiani disertavano le milizie e le dimore cittadine, preferendo vivere in comunanza coi barbari più umani e fraterni. San Gregorio Magno ("Omelia" 18, definita dal Gregorovius: “l’orazione funebre” di Roma), durante l’assedio di Agilulfo, re dei Longobardi, nel 593, predicava: "Che cosa vi è ancora che allieti questo mondo? Ovunque si scorgono lutti, si odono gemiti. Le città sono saccheggiale, le rocche demolite, le campagne devastate e trasformate in deserti. Nelle colonie non è rimasto un agricoltore, pochi gli abitanti in città, e ogni giorno sono colpiti da disgrazie. I flagelli della divina giustizia non hanno fine.

Alcuni diventano schiavi, altri tornano con le mani mozze, altri cadono uccisi. In che bassezza sia caduta Roma, un tempo regina del mondo, è facile vederlo: spopolata dei cittadini, assediata da nemici, con le case crollate in un cumulo di rovine. Dove più il Senato? Dove il popolo romano? Dove la sua grandezza, la sua superbia, i suoi smodati svaghi? (Ubi senatus, ubi populus? Contabuerunt ossa, consumptae sunt carnes (...) senatus deest, populus interiit, jam vacua ardet Roma). Noi pochi sopravvissuti viviamo continuamente sotto la minaccia di guerre e di interminabili calamità. Roma, tutta in fiamme, arde come una caldaia vuota, come un’aquila spennacchiata. La nobiltà di illustri casati, i discendenti dei consoli, dei senatori, erano caduti in miseria nel rimpianto di un passato, che non sarebbe più tornato. Da qui le amare delusioni, il disprezzo della vita cittadina, il desiderio di valori imperituri, di una vita degna d’esser vissuta. Gli spiriti migliori si allontanarono dalla Babilonia e cercarono le Valli recondite, i recessi montani della vita eremitica, per formarsi una nobiltè più spirituale, un umanesimo più eletto.

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